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sabato 13 dicembre 2014

Economia Politica 1° - L'occidente nel 1914-1940, crisi del '29, New Deal. Video+trascr.

Gli argomenti trattati in questo video.
Per progettare il futuro, oltre a comprendere i moventi in gioco nel presente, è determinante avere la coscienza dei motivi che lo hanno determinato.

In questa prima parte, vediamo come è nata l'egemonia economica mondiale degli Stati Uniti d'America, con quali strumenti l'ha ottenuta e per quali motivi poi, sono entrati in crisi.

Esaminiamo poi, la politica con cui F.D.Roosevelt, a discapito degli interessi dei centri finanziari ma a favore degli americani, ha agevolato la comparsa della società dei consumi di massa, verso un benessere transitorio.

Per il VIDEO Economia Politica 1° - L'egemonia economica degli USA, la crisi del '29, il New Deal
direttamente su You Tube, clicca QUI


Allego la trascrizione della lezione-video tenuta dal docente di Storia contemporanea, prof. Francesco Barbagallo, dell'università Federico II di Napoli

Benvenuti alla tredicesima lezione: il nuovo aspetto del mondo, la crisi degli anni Trenta, il New Deal. Vediamo adesso i punti principali di questa lezione:
- L'egemonia economica degli Stati Uniti;
- La fase di transizione del sistema politico internazionale mondiale;
- La situazione economica e finanziaria in Europa e nel mondo;
- La crisi del 1929;
- Il New Deal di Franklin Delano Roosevelt.

La Grande Guerra dà una forte scossa agli equilibri mondiali, avvia il processo di superamento della centralità dell'Europa, della centralità delle potenze europee nel mondo.

Si delinea la finis Europa, la fine dell'Europa. Il primo segno decisivo di un passaggio di mano nell'egemonia mondiale è dato dallo spostamento del Centro Finanziario Internazionale da Londra e Parigi a New York, a Wall Street.
Gli Stati Uniti, entrano in guerra ancora debitori dalle maggiori potenze europee per una cifra di circa 5 miliardi di dollari, ne escono, dalla guerra, come principali creditori del mondo, e anzitutto dei grandi imperi coloniali che pure hanno vinto la guerra; la Gran Bretagna e la Francia innanzitutto e poi l'Italia, hanno contratto, durante la guerra, debiti con gli Stati Uniti d'America per circa 10 miliardi di dollari. Già nel 1913, gli Stati Uniti erano diventati la più grande economia mondiale e producevano un terzo della produzione industriale mondiale, poco meno della produzione industriale di Germania, Gran Bretagna e Francia messe assieme.

Nel 1914 mentre in Europa scoppiava la guerra, negli Stati Uniti iniziava una nuova fase dello sviluppo capitalistico. Era il cosiddetto sistema cosiddetto tayloristico fordista. L'ingegnere Frederick Taylor, sul finire dell'800, aveva perfezionato un modello di organizzazione scientifica del lavoro nella grande fabbrica industriale, organizzata intorno alla cosiddetta catena di montaggio che era suddivisa in tante operazioni parcellizzate, che distinguevano le diverse mansioni degli operai (l'operaio e la fabbrica poi saranno splendidamente raffigurati nel film di Charlie Chaplin 'Tempi moderni').
Henry Ford era il proprietario della grande fabbrica di automobili che, appunto nel 1914 fissa per la prima volta la giornata di 8 ore di lavoro per gli operai, che era una antica richiesta del movimento operaio internazionale. E eleva poi, Henry Ford, il salario quotidiano degli operai alla cifra, importante per quell'epoca, di $ 5 al giorno.

La logica e l'ottica dello sviluppo capitalistico si spostano così dalla produzione al consumo, al centro del sistema di impresa si collocheranno da ora in poi i consumatori. 

Il sistema fordista prevede la trasformazione in consumatori innanzitutto degli operai, lavoratori i cui alti salari sono finalizzati soprattutto all'aumento della domanda di acquisto di merci.
La produzione in serie di merci cosiddette standardizzate, cioè tutte eguali a uno stesso modello,
favorisce la diffusione dei consumi di massa; non sono più soltanto le élite, i ceti privilegiati, che possono consumare merci, ma sono le masse dei lavoratori e dei ceti medi che si trasformano in consumatori.
Dopo la I guerra mondiale, gli Stati Uniti, oltre ad essere il maggiore esportatore di capitali, sono anche il maggiore esportatore di merci, sia di prodotti agricoli che di manufatti industriali.
Negli Stati Uniti si affermava un nuovo modello di sviluppo capitalistico, secondo un circolo virtuoso che stimolava un alto costo del lavoro al fine di espandere i redditi e insieme le capacità di consumo per una ulteriore espansione della produzione e dell'acquisto di merci.

In Europa invece si rimase ancora lontani da queste prospettive, si continuò su strade più tradizionali, che cercavano di rendere compatibili alti profitti degli imprenditori e bassi salari dei lavoratori.

Con la guerra, l'asse del sistema internazionale si sposta fuori dell'Europa verso l'America, ma se lo spostamento è abbastanza evidente sotto l'aspetto economico lo è molto meno sotto quello politico
Da questo punto di vista il sistema è piuttosto in una fase di passaggio con tutte le incertezze dei momenti di transizione.
L'Europa ha perduto parte della sua preminenza, ma le altre aree che si vanno affermando, anzitutto gli Stati Uniti e a distanza il Giappone, non hanno ancora un ruolo centrale.

La forza economica e finanziaria degli Stati Uniti è certo alla base del tentativo del presidente americano Wilson, di spostare il grande continente americano dal tradizionale isolazionismo

ad un ruolo politico attivo sulla scena mondiale, un ruolo adeguato alla egemonia ormai esercitata dagli Stati Stati Uniti sul terreno dello sviluppo capitalistico.
In alternativa alla rivoluzione socialista che veniva dalla Russia, il presidente americano nel 1918, poco prima che finisca la guerra, lancia il programma democratico racchiuso nei 14 punti.
I punti principali erano una pace giusta per tutti, fondata sul principio della autodeterminazione dei popoli, relazioni internazionali regolate dalla trasparenza democratica invece che dai trattati segreti delle corti e delle cancellerie (come ad esempio il patto di Londra siglato dal Regno d'Italia con Gran Bretagna, Francia e Russia zarista che prevedeva, in cambio dell'entrata in guerra dell'Italia a fianco dell'Intesa contro gli Imperi Centrali, che l'Italia ottenesse cospicui guadagni territoriali, tra cui Trentino, Tirolo meridionale, Venezia Giulia, Istria e parte della Dalmazia), poi libertà dei mari e libertà dei commerci, rinnovamento del sistema coloniale nel senso degli interessi delle popolazioni soggette, costituzione di una società delle nazioni come luogo di mediazione e di soluzione arbitrale e pacifica dei conflitti internazionali.
Questo programma non convince le potenze europee, ma non convince nemmeno il Congresso degli Stati Uniti che rifiuta di ratificare i trattati di pace e rifiuta di aderire alla società delle nazioni, alla fine del 1919.
Gli Stati Uniti rifluiscono sul tradizionale isolazionismo e non assumono un ruolo politico nella definizione del nuovo assetto internazionale, a dispetto dell'ormai acquisita preminenza nell'economia e nella finanza internazionale.

L'Europa viene lasciata al predominio continentale della Francia e al controllo della Gran Bretagna, il cui impero mondiale appare indebolito proprio sul terreno economico-finanziario, su cui si era costituito ed esteso lungo tutta l'età moderna.

La situazione finanziaria internazionale appare negli anni '20 ingovernabile per il fatto che i tedeschi si dichiarano impossibilitati a pagare le spropositate riparazioni di guerra imposte dalla Francia e dall'Inghilterra mentre queste, a loro volta, non intendono pagare gli enormi debiti di guerra contratti con gli Stati Uniti d'America prima di ottenere le riparazioni dalla Germania.

Gli americani a loro volta, che pure sono ricchi di merci e di capitali, rifiutano di effettuare investimenti nei paesi europei, tutti in pesanti difficoltà economiche e sociali. 

Gli Stati Uniti rifiutano di fare tutti questi investimenti prima di aver ottenuto la restituzione dei grossi prestiti fatti durante la guerra.
Il sistema economico mondiale non funziona più perché, diversamente dalla Gran Bretagna che ne era stata al centro prima del 1914, gli Stati Uniti non avevano più bisogno del resto del mondo per capitali, per forza lavoro, per prodotti finiti: li avevano tutti al proprio interno, all'interno del continente americano e perciò gli Stati Uniti non si curavano di agire come un paese stabilizzatore degli equilibri a livello mondiale.

Un'altra causa importante della depressione economica alla fine degli anni 20 era nell'incapacità dell'economia mondiale di generare una domanda di merci sufficiente ad alimentare una espansione durevole.

Il processo di mondializzazione dell'economia si era già avviato dall'ultimo quarto del 1800 alla guerra mondiale; dal 1875 al 1914. L'integrazione dell'economia mondiale conobbe una stagnazione, un regresso negli anni tra le due guerre mondiali. Ogni stato cercava, in questo ventennio, 1919-1939, in tutti i modi di proteggere la propria economia contro le minacce provenienti dall'esterno, cioè contro l'economia mondiale che versava in evidenti difficoltà.
I primi anni del dopoguerra furono caratterizzati nei maggiori paesi europei dal forte aumento dei prezzi e da una grossa perdita di valore delle merci, da una grossa perdita di valore delle monete in una fase caratterizzata da una crescente inflazione.
L'aumento del costo della vita produceva la rovina dei ceti a reddito fisso, gli operai e gli impiegati innanzitutto, mentre alleggeriva fortemente la posizione dei debitori e consentiva grandi occasioni di speculazioni mercantili e finanziarie: in generale sul piano sociale si indebolivano ulteriormente i ceti deboli e si rafforzavano ancora quelli più forti.
I ceti della media della piccola borghesia erano sconvolti dalla presa di coscienza del carattere precario della loro autonomia economica e del rischio di una loro proletarizzazione, discesa economica e sociale a livello dei proletari.

Sul finire degli anni '20 ebbe effetti sconvolgenti nell'esperienza delle classi lavoratrici il dilagare di una disoccupazione di dimensioni inaudite, e questo divenne più che mai prima il problema massimo della convivenza sociale e della condizione civile.

Il diritto al lavoro diventava l'elemento essenziale dell'equilibrio sociale.

La produzione industriale della Gran Bretagna, sul totale mondiale, era scesa dal 14% del 1913 al 9,4% della fine degli anni '20; la Germania era calata dal 14,3% all'11,6%, gli Stati Uniti invece erano saliti dal 35,8% al 42,2%.



Nei grafici adesso inquadrati trovate appunto una rappresentazione della ripartizione percentuale per paese nel 1913, della produzione industriale mondiale e quindi il confronto con la situazione nel 1926-1929.


Tra il 1923 e il 1929, gli Stati Uniti conobbero un tale boom economico che sembrava destinato a protrarsi indefinitamente. Fattore essenziale del boom era l'espansione dei consumi di massa: automobili soprattutto e poi elettrodomestici, frigoriferi, lavatrici, radio, grammofoni... 
Alla lunga, il limitato potere d'acquisto delle masse rispetto ai livelli crescenti della produzione e della produttività, non poteva non farsi sentire come freno all'espansione.

Dal 1926 era esploso negli Stati Uniti un grande boom speculativo che spinse un gran numero di

risparmiatori verso l'acquisto di azioni; prima con propri risparmi, poi con denaro preso a prestito con tassi irrisori da parte delle banche che prestavano questo denaro.
La speranza di facili guadagni con queste operazioni finanziarie di tipo speculativo favorì sia l'accesso di sempre nuovi clienti alla borsa valori, sia l'aumento degli acquisti per cliente.
Tra il 1924 e il 1928 il valore medio dei titoli industriali quotati a Wall Street triplicò, per quadruplicarsi ad agosto 1929.
La ricchezza facile di Wall Street pareva la più efficace realizzazione del sogno americano di rapida affermazione economica e sociale.

Il martedì nero del 29 ottobre 1929, l'indice dei titoli azionari di Wall Street crollò. Si mise in moto un circolo vizioso che si diffuse nei maggiori paesi capitalistici per cui ogni indice economico in ribasso, accentuava il calo di tutti gli altri indici.

Si giunse così, d'improvviso e del tutto inaspettatamente, assai vicini al tracollo dell'economia  mondiale.

Nei due grafici che vedete ora, sono rappresentati rispettivamente l'andamento della borsa di New York tra il 1926 e il 1933 

e il numero dei fallimenti bancari negli Stati Uniti tra il 1928 e il 1933: come si vede la crisi esplosa nel 1929 proseguì fino al 1933, portando il valore medio delle azioni a un terzo del livello del 1926.

La crisi svelava il carattere effimero del boom speculativo degli anni precedenti, quando rispetto alla metà degli anni 20, i prezzi delle azioni erano cresciuti in maniera spettacolare, triplicando il loro valore, ciò evidentemente non per un reale aumento del valore del capitale e dei profitti delle aziende ma appunto per la speculazione finanziaria, che portava grandi e piccoli investitori a sperare di guadagnare non con i dividendi delle aziende, cioè con la ricchezza reale prodotta dalle diverse attività economiche, ma rivendendo i titoli ad un prezzo più alto di quello con cui l'avevano acquistato.

Tra il 1929 e il 1932, gli investimenti nel mondo segnarono una caduta complessiva del 55% e la produzione industriale calò del 37%: i paesi più colpiti furono gli Stati Uniti, dove la crisi era scoppiata, e la Germania, che era strettamente dipendente dall'economia americana e dai capitali statunitensi, che ora erano in disastrosa fuga dalla Germania.

Così in Germania produzione e prezzi caddero e si ridussero, nel 1932, al 39% dei livelli raggiunti nel 1929. 

La produzione industriale statunitense calò di circa 1/3, tra il 1929 e il 1933, mentre i suoi ricavi netti calarono del 76% in 2 anni.

La serie dei grafici che vedremo ora illustra le conseguenze della crisi nei principali paesi industrializzati. 


In sequenza vediamo gli indici relativi alla flessione della produzione industriale negli Stati Uniti e nella Germania dove la crisi fu particolarmente acuta e nelle altre due potenze europee, Regno Unito e Francia, dove la regressione fu meno consistente.

Ma in tutti i paesi industriali, fallimenti e crisi si susseguirono fino alla primavera del 1932.
La sterlina perse il 30% del suo valore, la disoccupazione raggiunse quote senza precedenti: in Germania i disoccupati furono 6 milioni e oltre 3 milioni erano sottoccupati. 
Furono superati i peggiori livelli dei momenti più negativi del dopoguerra. I prezzi e il valore dei titoli scesero a livelli senza precedenti. L'economia mondiale si ritrovò in uno stato di vera anarchia e di generalizzazione della crisi in tutti i settori, a partire da quello agricolo.
Non si riuscì ad organizzare alcuna forma di azione comune a livello internazionale, per fronteggiare una situazione così drammatica.
Attraverso la sovrapposizione dei grafici relativi all'andamento della produzione industriale mondiale e all'aumento della disoccupazione tra il 1929 e il 1934, 


possiamo renderci conto di come la crisi ebbe conseguenze drammatiche soprattutto sul mercato del lavoro; infatti mentre la produzione venne ridotta di un solo terzo, gli indici relativi alla disoccupazione arrivarono a triplicarsi. Ci fu una crisi nella produzione sia di materie prime sia di generi alimentari di prima necessità, quando i prezzi di queste merci scesero in caduta libera. I contadini spesso cercarono di compensare la caduta dei prezzi aumentando il raccolto e questo fece precipitare i prezzi ancora più in basso. Per i contadini che dipendevano dal mercato, specie per le esportazioni all'estero, questo significò la rovina a meno che potessero rifugiarsi nell'ultima risorsa dei contadini, la produzione per la sussistenza e questo attutì il colpo della crisi per i contadini africani, asiatici,
latino-americani.

La situazione fu resa ancora più drammatica negli Stati Uniti perché lì non esistevano misure pubbliche per la sicurezza sociale, a partire dal sussidio di disoccupazione.

La disoccupazione di massa ebbe un impatto enorme e traumatico sulla politica dei paesi industrializzati. L'immagine più consueta dell'epoca era quella delle mense dei poveri e delle marce per il pane dei disoccupati.
Il senso di disorientamento e di catastrofe prodotto dalla grande crisi, fu forse maggiore tra gli imprenditori, gli economisti e i politici di quanto non lo fu fra le masse dei lavoratori, visto che era proprio l'assenza di ogni soluzione, entro la cornice della vecchia economia liberale e liberista, che metteva in drammatico imbarazzo i responsabili della politica economica.

Gli effetti della crisi furono disastrosi sul commercio mondiale, che in 4 anni, tra il 1929 e il 1932 calò di circa il 60% come vedete rappresentato dalla curva di questo grafico, relativa al valore totale delle merci scambiate sui mercati internazionali.


Gli Stati, per proteggere i propri mercati e le proprie monete contro le tempeste dell'economia mondiale, elevarono barriere doganali sempre più alte e questo significava lo smantellamento del sistema mondiale di commercio multilaterale.
La grande crisi distrusse per mezzo secolo il liberismo economico. Quasi simbolicamente, la Gran Bretagna abbandonò nel 1931 una politica commerciale liberista, che aveva rappresentato un aspetto fondamentale nell'identità economica britannica.
L'abbandono britannico dei principi del libero mercato in un'economia mondiale unica, accentuò la corsa generalizzata a misure protezionistiche delle varie economie nazionali.

In sostanza si ebbe dovunque un deciso intervento dello Stato nell'economia, controllo del credito, limitazioni del commercio estero, accentuato protezionismo, spinte autarchiche, cioè a chiudere i traffici dentro i confini nazionali, regolamentazioni e svalutazioni valutarie, contenimento dei bilanci statali, aiuti alla produzione, lavori pubblici, sussidi di disoccupazione e altre forme assistenziali.  Dappertutto prevalsero il controllo pubblico dell'economia e lo sviluppo di un settore industriale pubblico, la soppressione della libertà degli scambi internazionali, in una parola il protezionismo.

Ovunque prevalse un'ottica isolazionistica che tendeva a scaricare sui paesi vicini gli effetti della crisi, e questa rappresentò un momento ulteriore del processo di decrescente primato e centralità dell'economia europea. Nel lungo periodo le conseguenze per l'Europa furono più negative che per gli stessi Stati Uniti; in generale non solo rimasero lontani i livelli produttivi del 1913 ma non si raggiunsero perlopiù neppure i livelli del 1929.

La crisi del '29 non era semplicemente una recessione economica, ma aveva coinvolto la società nel suo complesso e la stessa psicologia in modo profondo.

Per uscirne occorreva non soltanto un progetto economico ma anche la capacità di colpire la fantasia delle masse.

Il presidente democratico Franklin Delano Roosevelt fu eletto nel 1933 da una larghissima base sociale. Contro l'opposizione dei grandi gruppi capitalistici, Roosevelt indicava nei banchieri e nel sistema finanziario i principali responsabili della crisi. Denunciare un ceto sociale come responsabile di un fenomeno non casuale, indicare un nemico, consentiva un'ampia mobilitazione economica e sociale, come in caso di guerra.

Una vasta campagna d'opinione, rivolta agli strati popolari che ne avevano assicurato l'elezione, l'allargamento dei poteri dell'esecutivo del governo federale, necessari a far fronte all'emergenza,
l'uso di quei poteri per promuovere una politica di risanamento dell'economia e per creare una stabile base sociale per il governo federale; sono questi i capi saldi della politica nota come new deal, 'nuovo accordo' che aveva una base sociale maggiormente fondata sugli strati popolari di quanto fosse mai capitato prima con le precedenti presidenze americane e mirava a rifondare sia il rapporto tra Stato ed Economia, dando allo Stato nuove responsabilità, sia i rapporti tra il potere politico e la società.

La politica del New Deal fu un insieme di principi generali e di decisioni contingenti. Roosevelt affidò un ruolo e un potere senza precedenti a intellettuali, tecnici, sociologi, economisti, psicologi che affiancarono il potere esecutivo come consulenti e a volte come responsabili di uffici e amministrazioni.

Le relazioni tra stato ed economia furono ridefinite nei primi 100 giorni della presidenza Roosevelt. Il sistema finanziario fu riorganizzato con la creazione di un'assicurazione contro i fallimenti bancari e soprattutto col rafforzamento della Federal Reserve Bank, che divenne una specie di banca centrale sul modello europeo, grazie ai poteri concessigli dalla legge per la ripresa industriale nazionale, il National Industrial Recovery Act, Roosevelt creò un sistema di agenzie federali, con il compito di promuovere grandi opere pubbliche in tutto il paese, di dare lavoro ai disoccupati nei diversi settori produttivi e di frenare il crollo dei prezzi agricoli e industriali.

Questi progetti perseguivano molteplici connessi obiettivi: attraverso l'erogazione di salari e quindi di potere di acquisto, servivano di stimolo alla ripresa.

Per ottenere questo, il presidente procedette per suo conto lungo una strada simile a quella che veniva indicando nelle sue opere il grande economista inglese John Meinard Kanes: invece di puntare a mantenere in pareggio il bilancio dello Stato, veniva accresciuta la spesa e quindi il deficit di bilancio, nella convinzione che la crescita successiva avrebbe consentito di recuperare il deficit stesso, questa la politica cosiddetta del deficit spending.

Il grafico che vediamo registra il diverso andamento, tra il 1935 e il 1940, delle spese e degli introiti nel bilancio del governo federale statunitense, che nel '36 giunse a spendere più del doppio delle entrate pubbliche.


Questi progetti poi allargavano il consenso al governo federale, sia tra i disoccupati e le loro famiglie sia in strati sociali più larghi.

La famosa Tennessee Valley Authority fu un complesso piano di crescita di una zona economicamente depressa, che univa il rilancio dell'agricoltura con lo sviluppo della produzione di energia e con il lancio di settori produttivi più avanzati; era una sorta di rivoluzione per cui lo

Stato federale assumeva un ruolo di stimolo e di regolamentazione senza precedenti: favoriva l'autorità federale contro i poteri locali, il potere esecutivo contro quello legislativo e giudiziario, creava un'ampia burocrazia di tecnici e di esperti dotata di vaste risorse e capacità di intervento. 
Il risultato era sia la stabilizzazione dell'economia che la creazione di consenso sociale per il governo.

Mentre in Europa e in Italia sorgevano economie miste, dove lo stato assorbiva e gestiva imprese produttive, industrie e banche, negli Stati Uniti l'intervento economico del governo restava limitato ai tradizionali settori di competenza: opere pubbliche, assistenza, tariffe, regolamentazione dell'attività finanziaria.

A somiglianza delle contemporanee trasformazioni dei sistemi politici, negli Stati autoritari europei (la Germania, l'Italia e l'Unione Sovietica), si stabilì un rapporto di tipo personale tra il presidente e le masse americane, sostenuto da un modernissimo apparato propagandistico: radio, cinema, comunicazioni di massa. Roosevelt appariva non semplicemente come un leader politico, ma come un condottiero che guidava il suo paese in battaglia: veniva così esaltato come un capo, ma non era un führer, dotato di poteri assoluti, anche perché il principio di fondo della politica americana restava pluralistico. A differenza degli Stati europei a Partito Unico, il New Deal tenne sempre presente l'esistenza di gruppi e interessi diversi nella società.

Sin qui abbiamo illustrato le caratteristiche e le scelte della politica di Roosevelt, ma quali furono i

risultati concreti del New Deal? Per rispondere occorre innanzitutto distinguere tre diversi piani, quello economico, quello sociale e quello internazionale.

Sul piano economico i risultati furono ragguardevoli ma non esaltanti. Tra il 1932 e il 1937 l'economia degli Stati Uniti non riuscì a raggiungere i livelli precedenti la crisi, a questi livelli si

tornò solo negli anni successivi dal 1939 in poi, con la politica di riarmo attuata in previsione della guerra, che diede un impulso impetuoso alla produzione industriale e consentì di riassorbire i 9 milioni di disoccupati che ancora si registravano nel paese. 
Ma a parte gli indici economici generali, la politica di Roosevelt raggiunse alcuni significativi traguardi tra cui vanno indicati: il risanamento del sistema bancario, l'aumento del potere delle aziende industriali più sane, l'esecuzione di grandi opere pubbliche, un maggiore equilibrio complessivo del sistema economico americano.

Sul piano sociale il New Deal riscosse invece un successo pieno e incondizionato. Con la sua rivoluzione tranquilla. Roosevelt riuscì a rendere più compatta e solidale la compagine sociale statunitense, introducendo sia nelle istituzioni che nell'opinione pubblica, un concetto più ampio di giustizia sociale. In questo modo venne dissipato quel clima di intolleranza tra le fasce più ricche e quelle più povere che si era instaurato nel paese in conseguenza della crisi economica.

Il New Deal pose così le basi del welfare-state dello Stato e della società del benessere, destinata ad assumere forme più ampie e diffuse nel secondo dopoguerra. Welfare-state che aveva l'obiettivo di garantire a tutti gli americani, anche i più deboli o senza lavoro, un reddito minimo e condizioni di vita dignitose.

Sul piano internazionale Roosevelt, per attuare la propria impegnativa politica interna, fu costretto a contenere il peso degli Stati Uniti, assecondando in questo modo il sentimento isolazionista da

sempre preponderante nel paese; in questo senso quindi, anche Roosevelt non si discostò dal disimpegno diplomatico attuato dai suoi predecessori repubblicani.
Soltanto con l'approssimarsi del secondo conflitto mondiale, il presidente statunitense invertì questa tendenza avviando il riarmo degli Stati Uniti e introducendo il servizio militare obbligatorio

Dunque, per concludere, quale giudizio complessivo possiamo dare del New Deal? 
Certamente, nonostante i limiti che abbiamo segnalato, ottenne importanti risultati.
La politica di Roosevelt incise profondamente nella riforma delle istituzioni, nell'instaurare un nuovo rapporto tra esse e l'economia, nel promuovere una coscienza collettiva più maturaconsapevole dei diritti dei più deboli e soprattutto nel dimostrare come fosse possibile riformare il capitalismo e insieme consolidare la democrazia, un risultato quest'ultimo, tanto più significativo se paragonato agli alti inaccettabili costi che ebbero, soprattutto sul piano della soppressione delle libertà individuali e collettive, altre politiche economiche dello Stato attuate in quegli anni, in primo luogo nella Germania nazista (per non parlare dell'Italia che aveva inventato il fascismo).

Vediamo adesso, in conclusione, i punti trattati in questa lezione:

- l'egemonia economica degli Stati Uniti
- la fase di transizione del sistema politico internazionale mondiale
- la situazione economica e finanziaria in Europa e nel mondo
- la crisi del 1929
- il New Deal di Franklin Delano Roosevelt
Arrivederci.

Riporto inoltre un'intervista al prof. Barbagallo, da https://www.ilmascalzone.it/2017/10/un-profeta-che-guarda-al-passato-lo-storico-francesco-barbagallo/, condotta da Raffaella Milandri:

2017-10-28 Ho avuto il grande piacere e l’onore di leggere e di conoscere Francesco Barbagallo, Professore Emerito di Storia contemporanea nell’Università di Napoli. Ho trovato il suo sapere e il suo modo di analizzare la storia decisamente illuminanti; la Storia Contemporanea del secolo passato mi ha sempre lasciato l’impressione di essere lacunosa, piena di ombre, troppo vicina a noi per essere interpretata in modo obiettivo. I testi del Professor Barbagallo mi hanno colpito per l’acume e la obiettività. “Lo storico è un profeta che guarda all’indietro” diceva Friedrich Schiller: motivo per cui, gli ho voluto porgere alcune domande sul presente e perché no, sul futuro. Ne è uscita una intervista di elevata attualità.

Professore, quale periodo storico La ha più affascinata da studioso? E perché ?

Da giovane sono stato affascinato dalla partecipazione delle Brigate Internazionali alla guerra civile spagnola, dalla resistenza armata al nazifascismo e dall’impegno romantico dei giovani nelle battaglie risorgimentali.

E in quale periodo storico Le piacerebbe vivere, o fare un salto nel tempo, potendo scegliere ?

Come Woody Allen vivrei con piacere a Parigi tra gli artisti della Belle Epoque.

Crede che questo attuale momento storico sia preludio a grandi cambiamenti? Quali per esempio?

Questo è certo un periodo di grandi cambiamenti. Distinguerei però tra i progressi scientifici e medici che migliorano le condizioni e la qualità della vita e i guasti prodotti da una comunicazione globale, che privilegia il narcisismo degli incompetenti e la disinformazione criminale.

Quali sono i Paesi chiave che stanno dando una impronta maggiore all’attuale frangente storico?

Certamente la Cina che, miscelando il peggio del comunismo e il peggio del capitalismo, è riuscita a creare la più grande potenza economica e geopolitica del XXI secolo, proponendosi come erede legittima dei fasti dell’Impero di Mezzo.

Senza voler fare previsioni, ma guardando al quadro internazionale, crede che ci sia il germoglio di un ritorno alla decentralizzazione con poteri sempre maggiori alle regioni e alle realtà locali?

Vedo piuttosto una tendenza prevalente all’accentramento delle grandi entità superstatali. Decentramento e localismi mi sembrano tentativi subalterni di resistenza ai processi globali.

Siamo in un periodo di “cose mai viste”. Quale La colpisce maggiormente, da studioso?

Mi colpisce il declino della democrazia come processo di elevamento morale e culturale prima che politico, intimamente connesso col precipizio delle masse e delle presunte élites in un baratro di egotismo narcisistico e di volgarità compiaciuta.

Trump e Kim Jong Un : ci sono i presupposti storici per un conflitto?

Sono due marionette che esprimono al meglio il degrado attuale della politica ridotta a squallido avanspettacolo.

Si poteva prevedere negli anni addietro questa crisi del valore delle istituzioni? sarà necessario un ritorno all’autoritarismo come appare succeda in Spagna?

A mio parere tutto comincia nel 1975 col Rapporto della Commissione Trilaterale sulla Crisi della democrazia, che auspicava la riduzione della partecipazione democratica liquidata in termini economicistici come “eccesso della domanda”.

La trasformazione della Cina comunista in grande potenza capitalistica e la scomparsa dell’Unione Sovietica hanno completato il processo di globalizzazione, che ha sostituito il potere del capitale finanziario al dominio della politica.
La fine delle ideologie ha comportato la scomparsa dell’etica e la dissoluzione della politica.
Il XXI secolo appare per ora dominato dalle guerre e dal terrore, nonché dalle crisi economiche e dalla diffusione della povertà nei paesi un tempo avanzati. La contemporanea fuoriuscita dal sottosviluppo di molti paesi per lo più asiatici non è accompagnata dalla costruzione di regimi politici capaci di soddisfare le esigenze primarie e le legittime aspettative delle popolazioni.
                                                                                                                  Prof. Francesco Barbagallo
Nota biografica di Francesco Barbagallo:
Nato a Salerno nel 1945, si laurea in Giurisprudenza nell’Università di Napoli nel luglio 1967. Assistente ordinario di Storia moderna nell’Università di Napoli dal 1969, è professore incaricato di Storia delle istituzioni politiche nell’Università di Salerno dal 1972 e ordinario di Storia dei movimenti e dei partiti politici nel 1980.
Dal 1981 al 2015 è stato ordinario di Storia contemporanea nell’Università di Napoli. Ora professore emerito. E’ stato, per dodici anni, direttore del Dipartimento di discipline storiche e, per sei anni, presidente del Corso di laurea magistrale in Scienze storiche dell’Università di Napoli Federico II.
Dal 1983 al 2016 è stato direttore della rivista <Studi Storici>.
Tra le sue OPERE si segnalano:
Lavoro ed esodo nel Sud 1861-1971, Guida 1973.
Stato, Parlamento e lotte politico-sociali nel Mezzogiorno 1900-1914, Università di Napoli 1976.
Il Mattino degli Scarfoglio, Guanda 1979.
Francesco S. Nitti, Utet 1984.
L’azione parallela. Storia e politica nell’Italia contemporanea, Liguori 1990.
La modernità squilibrata del Mezzogiorno d’Italia, Einaudi 1994.
La formazione dell’Italia democratica, in Storia dell’Italia repubblicana, coordinata da F. Barbagallo, I, Einaudi 1994, pp. 1-128.
Da Crispi a Giolitti. Lo Stato, la politica, i conflitti sociali, in Storia d’Italia, a cura di G. Sabbatucci e V. Vidotto, Laterza, 1995, pp. 3-133.
Napoli fine Novecento. Politici, camorristi, imprenditori, Einaudi 1997.
Il potere della camorra (1973-1998), Einaudi 1999.
L’Italia contemporanea. Storiografia e metodi di ricerca, Carocci 2002.
L’Italia repubblicana. Dallo sviluppo alle mancate riforme (1945-2008), Carocci 2009.
Storia della camorra, Laterza 2010.
La questione italiana. Il Nord e il Sud dal 1860 a oggi, Laterza 2013.
Napoli, Belle Epoque 1885-1915, Laterza 2015.
Ha curato le opere collettanee:
Camorra e criminalità organizzata in Campania, Liguori, Napoli 1988.
Storia dell’Italia repubblicana, voll. 3, t. 5, Einaudi 1994-1997.
Ha curato le edizioni di:
P. Villari, Le lettere meridionali e altri scritti sulla questione sociale in Italia, Guida 1979.
G. Fortunato, Scritti politici, Di Donato 1981.
F.S. Nitti, Il Mezzogiorno in una democrazia industriale. Antologia degli scritti meridionalistici, Laterza 1987.
Caro Berlinguer. Note e appunti riservati di Antonio Tatò a Enrico Berlinguer, Einaudi 2003.

Le tribù e gruppi etnici dei Nativi Nord e Centro
Americani, denominati Indigeni, Pellerossa,
Indiani d'America o Indios, prima dell'arrivo
degli europei. 

Per visualizzare: "Culture e Tribù dei Nativi Nord Americani, 
gli Indiani d'America", clicca  QUI

L'America degli inizi della colonizzazione, dal 1496,
da parte degli europei, del Nord e Centro.

La colonizzazione spagnola del Centro America
a partire dal 1496 e le colonie inglesi nell'est
del Nord America, fino al 1750.

Le colonie degli europei nell'Est
 del Nord America,  fino al 1775.
Sono indicati i forti e le nazionalità
dei colonizzatori.

La nascita, nell'est del Nord America,
degli Stati Uniti d'America, dove con
la guerra d'indipendenza del 1775-1783,
in cui sono indicate le maggiori battaglie,
13 colonie inglesi ottengono l'indipendenza:
la Rivoluzione Americana, ben vista dalla Francia.
 
La Guerra di Secessione Americana, dal 1861 al 1865,
fra gli stati unionisti del nord-est e gli stati confederati del sud-est,
legenda con la cronologia degli eventi e i luoghi delle battaglie.
In verde, i territori ancora liberi, ma per poco.

Tempi e fasi della formazione degli Stati Uniti d'America, gli USA,
  dalle 13 colonie che ottennero l'indipendenza nel 1783 all'espansione
territoriale del 1853. Alaska e  Hawaii saranno acquisite in seguito.

L'espansione degli Stati Uniti d'America, gli USA, dalla
  Rivoluzione Americana del 1775, alle isole Hawaii, 
 acquisite nel 1898. 

In azzurro, i domini continentali degli Stati Uniti,
escluse le Hawaii, con i nomi degli stati federali.  

Gli Stati Uniti d'America, gli USA,
  con i nomi di tutti gli Stati federali. 

Cartina geografica politica dell'Europa nel 1914, all'inizio della
  Grande Guerra, la Prima Guerra Mondiale.

Cartina geografica politica dell'Europa nel 1930, fra le
    Guerre Mondiali.

1° Cartina geografica politica delle colonie delle potenze
Europee nel mondo nel 1938, prima della
   Seconda Guerra Mondiale.

2° Cartina geografica politica delle colonie delle potenze
Europee nel mondo nel 1938, prima della
   Seconda Guerra Mondiale.

Carta geografica fisica del continente Americano,
con America Settentrionale, America Centrale e
  America del Sud.

Cartina geografica politica attuale del mondo, con le bandiere
delle nazioni sovrane.

Carta geografica fisica del mondo. 


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